Amparo

Rogier van der Weyden, Annunciazione, 1434 (part.)

di Carlo Brio

[che ringrazia gli amici per l’attesa e la lettura. Grazie, Biò, per la lettura, i commenti puntuali, la visione critica, la comprensione, l’apprezzamento, le correzioni.]

 

Nota: il motivo di questo racconto è spiegato qui. Il compare di questo racconto è qui.

Troppi ricordi non li aveva mai sopportati, troppe gocce a fare un calderone di melassa appiccicosa e oscura che avrebbe richiesto troppa attenzione, ne avrebbe rubata al presente, e, non pago, questo specchio di carni sfasciate che chiamiamo memoria, le avrebbe richiesto altre gocce in un’ampollina cristallina, contente un siero salino mesciuto a dolore, ma lei, che non voleva perché non poteva, di lacrime ne aveva da versare già al presente così arido, con tanto di arretrati. I ricordi la infastidivano, li riponeva via sbadata, sapeva che di proposito non sarebbe tornata a cercarli, ma, se pure fosse tornata indietro ricalcando la polvere già morsa, non li avrebbe trovati. Li portava addosso: cicatrici e pelle nuova. Pelle, pelle ambrata, giovane, elastica dei venti anni di Siviglia. Le mani erano affusolate, le dita lunghe, le unghie curate, un braccialetto al polso, un regalo, l’unico monile che indossava. Il collo lungo, perfetto, una ciocca ricurva vi poggiava sfuggita dalla massa serica dei capelli raccolti. La figura sottile, curva alla finestra, la luce che vi entrava ne faceva la copia carbone delle sue antenate, impressa nello stesso gesto, la linea del naso una discesa di luce mediana. Le mani, che avevano abbandonato le bambole di cui le mensole erano ricolme e che orami più non guardava, erano alle opere femminili intente, si movevano sicure, parevano di vita propria funzionare esperte, non ancora, non ancora intente all’Opera.
La casa a due piani era silenziosa, la luce l’allagava, sul tavolino della camera un pesce rosso natava in circolo. Di fuori ancora non era cominciato il brulichio mattutino, il cielo una lama pacifica, prometteva speranze. La città si dipanava per vie strette e pulite, le facciate delle case erano d’ocra e bianche, le edere vi si arrampicavano, tutto sembrava irraggiarsi dalla strada principale, ampia e lunghissima, tanto che dalla finestra dove la ragazza sedeva pareva confondersi con l’orizzonte, perdersi verso la fine della città. Era abbastanza larga da permettere al sole d’incastonarsi tra i profili verticali dei palazzi quando, nell’ultim’ore del giorno, declinava il proprio corso restando sospeso qualche tempo ad immalinconire la venuta della sera viola e della notte profonda. Era una bolla gassosa dilatata all’equatore, nei giorni caldi dell’estate l’illusione che stesse per sfaldarsi era prossima al reale, l’aria ribolliva in quel calore e ne tremolava, Amparo, dalla finestra della camera, si fermava a guardarlo cadere via, nel sonno acquoso, e si parava gli occhi con la mano tesa senza comprendere fino in fondo quella serpe malinconica che le strisciava tra le costole, umorando il sangue di nero. La notte poi, con i filari di lampioni illuminati, raddolciva il morso di quel commiato, le stelle parevano sorelle, ma la sua solitudine era un freno di marmo che non oltrepassava i vetri dell’ampia finestra, così aperta al mondo, così separata dalla città. Amparo, nei crepuscoli lenti di primavera, mordeva il labbro inferiore davanti a quello spettacolo, quindi tirava le tendine e, indossata la camicia di cotone, s’infilava sotto le lenzuola dove restava per qualche tempo a fissare il soffitto, senza che i pensieri le affollassero la mente, senza che il sonno venisse ad annunciare, come un impiegato inglese dei mondi, HURRY UP PLEASE IT’S TIME, solamente le mani fremevano e un liquore vischioso, che, se avesse indagato, avrebbe chiamato rabbia, provava a ribollirle in petto senza che temperatura e pressione si bilanciassero perfettamente: restava lì fino a che gli occhi si spegnevano, partendo per avventure e lidi che al mattino non avrebbe ricordato. Lei, che non amava i ricordi.
Depose i ferretti, la casa era vuota, grande, una conchiglia e lei la sirena, la prigioniera. La serva era uscita per le commissioni quotidiane, il padre, di buon’ora, dopo un bacio sulla fronte che ancora dormiva della moglie, aveva attraversato la strada ed aperto lo studio, la madre, qualche tempo dopo, dopo la colazione, il bagno, due chiacchiere formali scambiate con la figlia e gli ordini impartiti a Dolores, la serva, era uscita per una passeggiata, la borsetta in spalla, cappello, guanti, un vago desiderio d’acquistare qualcosa di inutile e di pacchiano, sfilare per il corso e le strade ariose e semprevive di Siviglia. Amparo, e la sua solitudine, vagarono per la casa deserta, immerse nel silenzio, di tanto in tanto prendeva un oggetto e lo rimetteva a posto, un posacenere, un quadretto, un vaso orribile comprato dalla madre dove i fiori pendevano appassiti, poiché l’acqua non basta mai e nemmeno le cure. Tornò in camera e riprese il lavoro a maglia. Sul tavolo, rosario e breviario attendevano, sciagurati!, d’essere sgranati, ma lì restarono, Amparo non amava alcun Dio che amasse preghiere, intendeva guardarlo in viso, Dio, e lo immaginava terribile e pietoso, ma non se ne curava più di tanto, non si curava di alcuna cosa. Amparo era infelice.
Il tempo era una sostanza appiccicosa, fastidiosa. Attraverso un panno di cotone, filtra il liquido del tempo, è dolciastro, stantio, trasmuta veloce nell’amaro. Amaro calice Amparo beveva. Il tempo sgocciolava con una lentezza che non è sua, perché il tempo non ha tempo, né fretta né rallenta, sgocciolava dalla gonna della ragazza, amaro, denso, in terra formava un lago nero, mobile, come una fossa, i piedi della sedia vi galleggiavano e un poco affondavano, tutto nero il parquet divenuto soffocava il respiro di Amparo che sudava nel mattino inoltrato.
Inoltrato verso dove?
Le parole smangiano il senso, e lo creano. Parole, siate maledette.
Questa l’iscrizione sul braccialetto che il fratello le aveva regalato.
Il tempo gocciava lento, lentissimo, il tempo imbrogliava. L’ore non passavano, i minuti stazionavano per ore prima di succedere l’uno all’altro, quella stanza, ebbe il sospetto Amparo, era incantata, sospesa come il ricordo di una vita sotto una campana di vetro che, se agitata, si ricopriva di neve. Che tutto ammuta. Il sospetto non era infondato, e Amparo avrebbe saputo che non si trattava solo di fantasie, di quelle che la madre le rimproverava da bambina, se avesse ripercorso, anche grossolanamente, le tappe della sua breve vita. Oh dei!…avrebbe esclamato il fratello, affranto. Ma era sola, le mani operose, la luce si spostava come meridiana sulla parete, le bambole dalle mensole guardavano svolgersi il nastro di carne e parole, il tempo che, indifferente, passava, passava indifferente seguendo faticosamente il solito ritmo.
Gli orologi sono spaccati tra i mondi.
Così era solita trascorrere il giorno, avrebbe proseguito con il lavoro all’uncinetto senza affondare nella lentezza dei secondi, così, seduta alla finestra, continuava a muovere i polsi, bianchi erano i polsi, solo qualche vena si vedeva entrare nei palmi, rotavano sicuri, nell’attesa che la porta al piano di sotto s’aprisse e Dolores rientrasse, stipasse la spesa e venisse a chiamarla, le dava una voce, chiamava il suo nome, come per controllare che non fosse annegata nel silenzio della casa rompeva quel silenzio che la casa sembrava esigere e la chiamava, con la sua voce di serva, la cuffia in testa a raccogliere i capelli faceva capolino dalla porta, sorrideva al saluto che la ragazza le riservava e tornava, rincuorata, al suo lavoro, alle camere mute, alla polvere.
Così rientrò e così accadde. Dolores sempre si meravigliava davanti agli occhi insondabili di Amparo e così accadde, si stupì del nerore che pulsava dal fondo di quelle pupille, e pure Amparo era viva e le sorrise, così discese al piano terreno a preparare il pranzo. Posati gli uncinetti, la ragazza la seguì. Non contava i passi scendendo le scale, contàteli voi, ascoltate l’infelice Amparo che scende gli scalini, uno alla volta, la mano sul corrimano, la testa ben bilanciata sul collo, la ciocca rifuggita lì vi riposava, sul collo, come un ornamento. Dolores si meravigliò, la seconda volta nello stesso giorno, nel vedersi raggiungere dalla ventenne, non disse nulla e continuò a tagliare le carote, Amparo le si pose al fianco e l’aiutò, silenziose la padrona le trovò spalla a spalla nell’aria umida del tardo mattino, una smorfia tradì la sua sorpresa, ma rigò dritto verso la camera da letto per le cose sue, poiché la casa era silenziosa ed esigeva spazi precisi, ognuno il suo, ognuno il suo fiato, il suo spazio, il suo puzzo, la sua cella. La casa era grande e conteneva molte porte.
A volte i mondi si sovrappongono e, gli orologi, si spaccano.
– Ah, sapesse come sono felice che suo fratello stasera venga a trovarci!
– Mio fratello? – la voce di Amparo tremulò.
– Come, non lo sapeva? La signora, stamattina, prima di uscire, mi ha chiesto di mettere in ordine la camera di Olvidio e di preparare il letto…Pensavo lo sapesse, o forse non è vero che torna e la signora vuole solo la casa in ordine.
– No, Dolores, non so niente, mai.
Solo i cozzi dei coltelli sul tagliere.
Terminarono di preparare il pranzo, Amparo, in uno slancio di intraprendenza, preparò anche la tavola. Il padre rincasò come sempre puntuale, tolse il cappello, il soprabito, dopo un saluto allegro gridato alla casa puntò la cucina e scoperchiò le pentole per vedere cosa c’era di buono. Inspirò profondamente i vapori aromati e, riposta la borsa nello studio, sedette nel salone in attese delle sue signore, delle ragazze, come le chiamava. La padrona non tardò molto. Era come sempre molto truccata, il principio di decadenza facciale nascosto il più possibile, la pelle non aveva alcuna lucentezza, pareva terra vecchia e secca, con uno svolazzo di vesti e un sorriso brillante baciò la guancia glabra del marito e gli sedette al fianco: attendevano le due altre signore.
Amparo si era nascosta, il cuore tremava, quando per la seconda volta sentì strisciare i piedi della sedia capì che lei solamente mancava, così raccolse nel fondo degli occhi gli embrioni che le si andavano lumando nell’animo e attese alla quotidiana scena del pranzo familiare, gesti parole occhiate ormai imparati a memoria, ormai da tempo registrati, castrati, seduti compiti, numerati, li ignorava i due ai suoi lati, ignorava le parole, lembi di pelle morta, scambiate, i suoni che mangiando producevano liquidi, chiassosi, e i cozzi delle posate nel piatto, ignorava le loro facce che erano molli promesse deluse, il siparietto di una compostezza tombale sotto cui brulicano e larvano i vermi.
Finì presto.
Tutto s’affina.
Trovò Dolores la serva in camera di suo fratello. La porta era semichiusa, lei, Amparo, entrò. La vide sollevata sulle punte dei piedi, le braccia tese verso l’alto a trattenere un baule che scivolava dall’armadio e alcune coperte che sopra vi erano riposte, scivolava tutto, Dolores si sforzava perché il baule, che pareva pesante, non cadesse, così Amparo corse in suo aiuto, insieme, sollevandosi sulle punte, tendendo i tendini, riposero di nuovo al proprio posto il baule e le coperte, Dolores ringraziò la signorina che non abbandonò la stanza, anch’essa luminosa per via di una finestra che dava su un altro lato della strada, ma restò, le mani intrecciate dietro la schiena, a girare sulla moquette verde, osservando ogni cosa incuriosita. Era proprio ogni cosa restata lì dove era stata lasciata. Non era più entrata in quella camera da quando Olvidio era andato via poiché entrarvi avrebbe significato ricordare che Olvidio era assente, e lei sola: ma i ricordi le stavano annodati ai gomiti bruniti. Il crocifisso aveva lasciato la propria impronta sul muro, anche se il fratello l’aveva tolto da tempo, il segno della sua presenza persisteva. Accanto al baule, s’accorse Amparo, distesa con l’ombelico all’aria, impolverata e silenziosa, d’una silenzio asciutto, risentito, sull’armadio, così abbandonata da anni, di fianco alle coperte e al baule era una chitarra. Rischiando di far cadere tutto, Amparo allungò le braccia per prenderla. Sedette sul letto, la strinse a sé, le braccia s’adagiarono sulle curve vuote, quell’indovinello a sei corde, tre d’argento e tre d’oro, con un occhio oscuro al centro della cassa, che risveglia i morti e il silenzio dei morti, la chitarra, che non sapeva suonare, era di Olvidio, era lui a suonarla, e a volte cantava pure, ma solo a volte, il resto del tempo, diceva, ascoltava. Nel rigirarla tra le mani, per osservarla per intero, poiché oramai l’aveva dimenticata, sfiorò un paio di corde, di quelle in alto, di quelle basse. E il suono s’espanse, tagliò l’ora e vi camminò sul bordo. Quando s’acquietò e il silenzio fu tornato, Amparo si meravigliò che la casa non fosse crollata e che il mondo, di fuori, restasse ancora in piedi.
Era l’ora mediana, quella del riposo.
La fantasia della chitarra, pure solo abbozzata, aveva trafitto i muri, gli angoli, gli spigoli, i vuoti, i pieni, le gambe, i piedi, la polvere, il pavimento, le imposte della finestra, aveva abraso la chiarità di segno dove un tempo era il crocifisso, avevano penetrato il legno, le due note occasionate, del letto su cui Amparo sedeva, come Aladino sul tappeto, come naufraga sul proprio relitto in attesa. In attesa di cosa non sapeva Amparo, ma lì da sola non era sicura che il mondo non stesse viaggiando in un turbine d’aria turchina verso i cieli, il dubbio le inumidiva il cuore, il piccolo sacchetto della sua vita, così triste, così minuto, e s’alzò di scatto, tormentando le mani l’una nell’altra dito per dito, osso per osso. Si guardava intorno, spaesata, qualcosa stava per accadere. Qualcosa stava per cadere. Una testa di marmo dall’alto, nel centro della città.
Era l’ora mediana, quella del riposo.
Era l’ora che sospende le altre ore, quando l’avvoltoio vola pigro in cerchio nel cielo come a chiarire di che natura sia il suo abbraccio con la terra, quando tutto riposa e la casa sembra ritrarsi in una posa dove livore e austerità si congiungono in un’assenza di proponimenti che si riflette nell’abbandono dei viventi, distesi sul letto fra lenzuola stropicciate, col capo su cuscini poco imbottiti sudaticci, a sognare i sogni dell’ora mediana, quelli che si ricordano meno, i più estranei, i meno attesi. In quell’ora, determinata da una sola nota di chitarra che si è perpetuata nella sua assenza, sedeva Amparo l’infelice sul bordo del letto quasi consapevole che il mondo fosse mutato in una magia vera, di formula simile a quella che ha stregato la sua abitazione che, per la prima volta, non sentiva come un’isola deserta separata dal mondo. Ma le magie, pur con le stesse formule, non sono mai uguali e i pronunciamenti sono diversi così come sono diversi i modi in cui si tiene una tazzina di caffè tra le mani, così, che la casa ora fosse nel mondo, non era vero, era solo un’ambiguità. Il mondo non era crollato, nemmeno scomparso in un puff, erano le sue gambe ancora giunte attaccate al letto coperto di una coperta verde, era Amparo con gli occhi ancora vaganti, in attesa, ma, se nulla viene, allora siamo noi ad andare e così Amparo s’alzò, quasi di scatto, come dopo una risoluzione, e raggiunto il centro della stanza, dove prima un mondo oscuro aveva provato a far sentire la propria presenza, tra la porta d’uscita e la finestra, come per una capitale direzione da acquistare nel bivio piatto che è un deserto, Amparo, osservàtela, mosse i fianchi a guadagno della finestra che dava su una strada diversa dalla sua di sempre, dove forse il mondo, in quell’ora che tutto riposa, anche la vita d’un’ora, sarebbe apparso diverso. Non fu così. L’attesa s’infranse e stizzita la ragazza uscì dalla camera del fratello. Fece ritorno nella propria. Sulla sedia di sempre attese di trascorrere dell’altro tempo, nel modo solito, quello che uccide. Odiò i ferretti riposti davanti a lei, il lavoro a maglia che chiamava come una sirena impazzita, trovò che altro non erano che un paio di manette, i ferretti, grattò il polso sinistro, senza neanche accorgersene, passò poi le dita sulla pelle irritata, prese le braccia tra le mani nell’abbraccio solitario, dondolando leggera un po’ in avanti un po’ in dietro, la mente ottusa e offuscata di perle acerbe. Negò lo sguardo ai ferretti e al letto, volse il capo alla finestra ampia, da dove il sole ancora entrava per strascichi di obesità. Era l’ora mediana e riposava, il sole, tra le fila dei palazzi lungo il corso, prima del cotidiano ritiro. Non l’interessò il sole né gli edifici in successione, non fu la via, vuota, né i lampioni in piedi all’incrocio, gli occhi vagavano da un punto all’altro come piccioni metropolitani, impazziti per l’angoscia che ne stringe i cuoricini, finché un puntino raccolse la sua attenzione. Era al centro della strada, veniva giù per l’avenida, si moveva leggera come se non sfiorasse la terraccia e man mano che avanzava la retina d’Amparo s’imprimeva di particolari nuovi, la sua attenzione sfociò in curiosità e il rapimento che stava prendendole il cuore era simile a quello che avrebbe provato s’avesse sfogliato uno dei libri che Olvidio le aveva lasciato. Era l’ora mediana, quella del riposo, ma quando il mondo riposa è legge che le streghe vengano fuori dai tuguri e infestino le strade e i boschi con l’asprezza della saliva e la tenacia dei calcagni, era l’ora in cui tutto si posa e pure il cuore di Amparo si era posato nel fondo di pece del costato, dove il battito era minimo, lento lento, e non arrivava a brillare di traverso gli occhi, così le pupille rendevano al mondo irreale la pece di cui il cuore era infagottato, una cuna malsana, che spegne il morso e lascia irredenti, mummie, spettri, e la coltura della pece diviene l’unica occupazione perché si crede, e Amparo lo credeva, che con la stessa pece si potessano coprire le ferite, se non curarle, per lo meno attutire il pulsare ricordoso, il tum-tum della ferita imputridita che per converso, nella consuzione prossima di qualsiasi morte, ricorda la vita, l’apri-e-chiudi del cuore, la porta sacra e pure oscura ma di mano destra.
È il coraggio che manca perché manca la forza.
Manca la forza quando in terra nella polvere insanguigna si trema…si trema…
Dimentica dell’ora in cui si trovava, la giovane Amparo era seduta alla finestra ampia, guardava la strada sonnacchiosa e la figurina improbabile che ne seguiva il corso. Non se ne rese subito conto, ma pensava, lì seduta, che era bella, la donna del meriggio: riusciva a distinguerne i tratti, e i movimenti: non passeggiava: danzava, leggera, astratta, tuttavia non perdeva nulla di quanto aveva intorno, ogni cosa era raccolta nel distendesi del braccio e, nell’arcuarsi di un polso, conteneva i boschi da dove era venuta e il Guadalquivir e il cielo e un globo azzurro e biancaceo a forma di stilla. S’avvicinava, s’avvicinava, Amparo ne distingueva ogni tratto, Amparo era impressionata, assorta, potreste dirla stregata, la giovane, Amparo, era lì, ora in piedi, il naso sul vetro, attenta, in quel deserto dove niente passava, un suono pareva accompagnare quella visione, che era vera come il freddo che dalla finestra si trasmetteva al naso: ai piedi, nudi, della danzatrice, alle caviglie, sonavano dei sonaglietti, tintinnavano come il canto dell’allodola di cui è sparito il corpo ed è rimasta la voce. Del tintinnio s’era impregnata l’aria, il cielo come la terra, le case, immobili, parevano di gesso, immobili, ma partecipative, le nuvole, bianche, che a banchi segnavano il cilestro e le foglie degli alberi, immobili, della strada ondulavano come cantando una melopea muta, così pura che l’udire ne avrebbe offeso le orecchie. Tutta una vita era manifesta sul volto che Amparo scrutava centimetro per centimetro, sforzando gli occhi per vedere di più, senza sapere che gli occhi avevano svestito la tenebra peciosa, non si distrasse nemmeno un attimo per vedere il suo proprio viso riflesso nel vetro della finestra, no, fissa era a risguardare la strada, non era più lì, non contava più lei, lei, Amparo, non aveva più peso, né forma.
Quel volto era un ricordo.
Quel volto era un amuleto del tempo perduto.
Quel volto era una fitta.
Quel volto era un dolore.
Quel volto era la più grande solitudine.
Quel volto era una fitta per il cuore di Amparo. Ignaro, ma disciolto dal vischiume velenoso.
Quel volto era una bellezza.
Quel volto era le mille onde del Guadalquivir.
Quel volto era l’opaco silenzio d’un giglio.
Quel volto era un guscio d’uovo rotto.
Quel volto era una sorella.
Quel volto era una vita.
Che Amparo non avrebbe mai conosciuto, che abbagliava, che aveva una storia di dolore da raccontare, come tutte le storie, che Amparo imparò ad interpretare, che Amparo succhiò a viva forza in pochi attimi, come beve l’assetato, che Amparo, però, in cuor suo, sapeva avrebbe abbandonato alla gramigna. Un doloretto acuto, acuto acuto fin nella midolla, le fece mordere il labbro a questa consapevolezza.
Tutto si perde.
Lei, Amparo, tutto avrebbe perso.
Come tutto aveva perso. Da sempre.
Vide.
S’innamorò.
Fu strano e silenzioso, germogliò lichene verde, che spunta inatteso, nell’attimo che separa il buio dall’alba e, al contempo, lo unisce.
Era innamorata.
Non avrebbe saputo dirlo.
«Ragazze, tirate le tendine!»
La voce paterna, una caverna, oscura e sdentata, rintronò. «Ragazze, tirate le tendine!»
S’aprì di scatto la porta già un poco scostata della camera della giovane, irruppe il padre, gambe lunghe, quattro passi, la scostò dalla finestra, chiuse le tendine. Amparo era quattro ossa senza voce, il padre un armadio a spalle larghe, grigio, un porta per sempre chiusa. Si guardarono, e gli occhi di Amparo erano grandi vasche, quelli del padre si addolcirono, prese la bocca la piega d’un sorriso, affabile, rassicurante, oh quante bugie!, e le disse, posando una mano sulla spalla di lei, il braccio teso a marcare la distanza:« Quella è una donna brutta, oltre che cattiva. Sembrava sparita…e invece è tornata. Non bisogna darle attenzione. È malata. Guasta.» Tra i denti erano le parole uscite insieme a un fumo verde, lento. Tra i denti, con delicatezza, era stata maciullata, nell’occhiolino e nella posa di padre il padre era stato padre della figlia, poiché così s’uccide, a poco a poco, spezzando, facendo il padre senza amare il Padre. La voce d’Amparo s’era incollata al velopendulo. Il tintinnio era svanito.
La casa, e lei con essa, era riprecipitata nella casa.
Oh…
Uscirono insieme, mano nella mano, ma forse più mano tira mano, Amparo, la giovane, il padre, il grigio rasato, insieme, per la strada, l’attraversarono, c’era il sole, era tutto illuminato, riscaldato, le ombre lunghe, nere, lunghe, nere, lunghe, lunghe, nere, nere, si dirigevano verso lo studio, di fronte la casa grande, la strada era vuota, tutto era acceso, la strada e i palazzi, i platani e le panchine, immersi nel sole, una luce calma, diffusa, gialla, l’aria era limpida, camminavano in silenzio, aveva voluto la sua compagnia, non lo faceva mai, non ne sentiva il bisogno se non sui solchi dell’orologio a muro, tuttavia la voleva con sé, per il resto del pomeriggio, come a depurarla da ciò che aveva visto, trascorrere tempo con la propria figlia come sotto una tenda di quarantena, far sedere la figlia in un angolo svolgere il proprio lavoro in modo professionale cioè sistematico infallibile senza che l’occhio si curi del corpo sulla sediola impassibile è il grigio pure se creduto una sfumatura sistemare la figlia al proprio fianco perché la vista disappanni perché la molestia d’una visione fortuita venga rimossa perché il contagio non giunga alle meningi al neo al naso perché i sogni non modifichino perché il tempo resti tempo della casa e la sua regola.
Accanto allo studio, era una tabaccheria. Mezza imposta era aperta. Il padre faticava a cavare la chiave di tasca. L’aria immobile. La luce. Amparo guardava dritto davanti. Il muro. Sullo scalino della tabaccheria un uomo. Sulla soglia. Aromi dal negozio, che aveva aria d’antico. Confusa, la sagoma. Nell’ombra interna. Era in piedi, s’indovinavano le mani in tasca. Silenzioso. Forse guardava Amparo, sospettò Amparo. Il padre aprì la borsa, una goccia di sudore sulla tempia destra, a cavallo d’una vena. Vide basette bianche, Amparo, una guancia rasata. Impossibile. Si convinse che non stava guardando lei. Oltre. Al di là di lei, al limite della strada. Forse non guardava affatto. Immobile, come in sogno. Vide l’angolo della bocca solcare la parte di guancia al sole. Lo trovò un sorriso bellissimo. Candido. Guardava oltre. La serratura scattò, la porta dello studio s’aprì, il fresco l’investì, la mano sulla schiena la pressò per entrare, l’uomo non s’era mosso ancora, Amparo entrò, prima che la porta fosse richiusa udì un nome. Carmen. Ebbe voglia di piangere.
Non lo fece, non usò mai neppure il bagno, vagolò per lo studio, di tanto in tanto tra i clienti, osservò i quadri, la finestra, le tende, i mobili, i libri in vetrina, si soffermò sull’odore, guardò spesso il padre, l’odiò, l’amò, decise per un’ambigua zona sfocata di sentimento, un limbo non troppo crudele, né per lui, né per lei, e così trascorse il tempo, lo fece scorrere addosso e via, come di lato, l’accompagnò un poco con la mano. Pensava ad altro in realtà, così il piano paterno, che lei ignorava, fallì dal principio. E venne sera.

Lascia un commento