Inverno

bru

Aborto n° 1

di carlobrio

Novembre, dopo i morti, il gelo ci visitò. Era l’artico. Le tribù cittadine costrette nelle case dalla glaciazione. La necessità di calore stimolava produzione onirica incentrata sul paradiso Seychelles. Alberta moriva. Non era la morte letterale, ma lenta consunzione. Il freddo mangiava il midollo osseo. Dall’interno della sostanza gialla reclamava il banchetto di fine era. La città dormiva. A volo d’uccello: essa era sonno. Ciò che non dormiva, moriva. L’esclusione da un riparo s’imponeva come sicurezza mortuaria. La pulizia delle strade mai fu migliore. Nettezza soffiata col vento gelido dell’inverno. Ci visitò, ma fummo impreparati. A volo d’uccello: il sonno della città falso. I grattacieli, le abitazioni, i casermoni condominiali: argomentazioni del gelo. Il ghiaccio ricopriva tetti e sommità, pendeva in stalattiti azzurrine. Forse, quando il freddo non è bianco, c’è ancora speranza. A volo d’uccello: le facciate delle case a volte illuminate. Luci gialle nel tramonto invernale. Contrasto giallo-oscurità. L’intensità dell’uno chiamava l’altra. Quando luce e ombra sono la medesima sostanza.

Strade deserte. I topi, senza alcun pifferaio, erano morti. O in esilio, almeno loro. Nettezza, solo nettezza urbana. Alla fine.

Ciò che è proprio del tempo.

Ciò che era atteso, giunse.

La fredda visitazione del destino. Che rovina.

Imparare il letargo, almeno per la sopravvivenza. Almeno ora necessario, alla sopravvivenza. Sopravvivere, finalmente giustificato. Vivere, il nascondiglio del sole. Tornava la moda dei vichinghi, saremmo tornati a vivere come dei barbari. Al momento: sopravvivere, nient’altro. No schemi, no tattiche, no strategie. Resa. Arresi. Ciò che eravamo, non lo saremmo più stati. Ciò che era promesso, era per vero giunto: la vera promessa. Che non chiamerete catastrofe. Anch’essa, come la morte già menzionata, un accidente. È il tempo, l’era.

Il divano giallo, Alberta stesa, le vertebre doloranti, i glutei insensibili, l’ergonomìa del sonno. Le coperte sistemate in modo che non ci fossero spifferi. In una lingua meridionale spiffero si dice filippina. Le Filippine, probabilmente, ma nessuno era in grado di accertarlo, erano al sole. Qui, invece, era sparito. Coltri permanenti. Il cielo si era negato alla vista di questa umanità. Quale occhio lo guardava? Da quale finestra? Domande di cotone, ai livelli minimi della coscienza di Alberta. Che fuggiva il freddo. E le Filippine. Solo due pensieri, presso di lei: Vorrei non averti incontrato in questo già folle percorso, vita, il soggiorno mi sarebbe stato più lieto; e: Vorrei poterti ancora guardare, pallido volto. Il resto era ottundimento. Sopore circonfuso. Poco la testa fuori delle coperte. Giusto per respirare. L’aria gelida. Il nitore del freddo per una stanza cristallina. Nonostante tutto pulita.

L’immobilità del divano. Al piano di sotto abitava zia Maria. Nessun movimento dal piano basso. Forse Maria morta nella pesantezza dei chili. Immobile su una sedia, conservata dalla bassa temperatura, con tanto di decomposizione rimandata. Ciò che vide Alberta: Maria morta in cucina, seduta al tavolo, la sedia leggermente scostata, di tre quarti rispetto la porta d’entrata, perfettamente ritta, la mano destra poggiata sul tavolo, un orologio al polso mezzo coperto dal maglione, la mole irregimentata dal gelo, alla pinguedine il peso dei vestiti, ai piedi babbucce di lana arancione, su tutto un maglione a collo alto blu, i capelli continuavano a crescere, alla tintura rossa il grigio della ricrescita, la criniera paralizzata, gli occhi sbarrati, cerulei, la bocca un poco aperta al principio d’un grido o d’un sospiro profondo, la figura imponente, il sedere due volte il fondo della sedia, la luce accesa. La compostezza della morte che non ebbe in vita.

Ma era un sogno. Probabilmente era ancora viva, solo immobile. Silenziosa. Come lei. In casa non era sola, in camera da letto una voce. Ancora qualcuno riusciva a muoversi, per lei inconcepibile. Non ancora mummia, ma le funzioni vitali al minimo. Ciò che lavorava: il cervello. Ciò che non era ancora paralizzato. La possibilità d’un movimento. La sua camera abbandonata. In esilio, l’esilio era il divano, il tetto le coperte. L’alito condensava. Profumava. I suoi occhi, tuttavia, mimetizzavano con la stagione. Era l’artico. Essi, l’igloo d’un infinito. Coralli nel naso. In camera l’abbandono finto. Il necessario sempre con sé. Ella stessa il necessario ufficio. Tra l’altro il mondo scompariva. Ne era convinta, dunque in attesa. Nessuna solitudine, il pensiero non aveva smesso. La prosecuzione per la sopravvivenza. L’obiettivo: evitare demenza o follia. Era un monito tacito, il voler sopravvivere del senso di sopravvivenza, la ferinità innocente.

Per i talloni a testa in giù. I neonati. Il biancore dei neonati appeso fuori le porte obolo all’inverno. Che passasse, che passasse…Così pendeva il fratello di Ismaele. Lacrime ancora possiedono un poco di calore. Appesi alle porte i bambini.

Non viveva lontano. Nelle peregrinazioni lungo i neuroni Alberta riandava di tanto in tanto al nome. Al volto. Ismaele. La voce. Ismaele. Ancora salvo, Ismaele, aveva rinunciato a morire.

Moriva ugualmente.

Raccontavano i rispettivi sogni. Il ragazzo la raggiungeva nei pomeriggi brevi. Presta l’oscurità a cadere. Si direbbe come foglia d’autunno, se autunno esistesse. Ismaele era un temerario. In realtà incosciente, disperato, suicida. Ismaele il vivo. Così al risveglio come all’addormentarsi***, colui che seguitava a vivere. Seguiva la vita. Verso? L’ignota innominabile questione. Proseguiva a vivere, sfortunato. Immenso dolore dall’occhio, la neve ancora non attutiva i lutti. Usciva di casa. Dall’occhio materno vigile in pena. Tre strade, da percorrere, di lunghezza proporzionale alla temperatura. Mani in tasca, vestito di nero. Alle medie chiesero perché vestisse nero, se fosse lutto. Allora era gusto. Allora…

Ghiaccio ai lati dei marciapiedi. Non pioveva mai. Dimentica la compagnia della pioggia. Ismaele. Aria netta. Profili. Il mondo dimensionato: sbocchi, prospettive, terrazzi abbandonati. Nessun bambino a giocare coi vasi di fiore. No fiori, no verde, no umido. Cristallo. La città un’installazione. Congestione nell’urto invernale. Inverno visitò Ismaele, suo fratello visitato da inverno. No fiori a indicare l’età. Per un tallone appeso. La cordicella marrone nell’adipe infantile. Segnata la caviglia blu. Passi rapidi per necessità. Strada a memoria. No errore, nemmeno la sua possibilità. Città del gelo, senza ambiguità. Disumana. Passi rapidi, a memoria. Il cancello del suo palazzo una stalagmite. Decorazione russa da carillon sotto vuoto. Sotto vuoto no suono, no voce. Silentium. Citofono. Voce che dalla camera da letto si è spostata. Chi è? Ismaele. Il nome vapore acqueo. Entra. Le scale. Ancora movimento. Ciò che Ismaele muove, Alberta ferma. La porta. Entra. Visione: la casa, i mobili, tappeto rosso azzurro arabescato, i pomelli delle sedie, mobili di legno, luce accesa, ombre negli angoli, figure, vuoto. No suono. Il divano giallo, Alberta stesa, le vertebre doloranti, i glutei insensibili, l’ergonomìa del sonno.

Attendeva. Le si fece vicino. Le mani di Ismaele sulle coperte morbide. No suono.

Primo movimento – le voci restano nei palati. No voce – occhi aperti solcano i volti oscuri. La luce gialla tracciava pergamene sulle epidermidi. Voli di ombre tra i profili. Umani. Umane ombre. Gli occhi di Alberta quelli della stagione che ci visitò. Di Ismaele terra incarbonita. Diamanti carbone vuoto. Vuoto. Raccontavano i rispettivi sogni nei pomeriggi sopravviventi. Combaciarono le mandorle come quattro laghi montani.

Secondo movimento – page { margin: 2cm } P { margin-bottom: 0.21cm } –>le parole ideogrammi congelati. I sogni – la fluttuazione di una realtà considerata tale per dipendenza – no sueño no reale, polvere bruciata spazzata via dalle stelle. Le labbra modellarono scoprendo a tratti i denti i sogni divenuti il motivo della loro sopravvivenza. Raccontare per sopravvivenza, un nuovo calcolo umano. Che esonda. Esonda. Alberta sbrinò dal letargo invernale, fu la prima a parlare.

Alberta: – Un sogno bellissimo, Ismaele, non riesco a spiegare. La maggior parte dei sogni sono tuoi, io non sono brava a raccontare i miei, già così radi…ma questo…questo…è stato bellissimo e non avrei voluto svegliarmi…che svanisse…andasse via. L’avrei inseguito, e ci ho provato, ma il freddo mi ha staccata. Avevo troppo freddo. Morivo…Ero alla finestra, fuori il giardino era verde…vivo…splendeva il sole, gli alberi erano tornati. Era un incanto…un incanto quando la finestra e la parete ai lati scompaiono, resta il giardino ma non ho più nulla sotto i piedi, fluttuo ma sono ben salda, il verde del giardino straripa oltre il recinto di legno, prosegue per morbide alture che si stagliano contro il cielo…quando all’improvviso si levano immensi due petali, non li tocco…so di non poterli toccare…so che sono vellutati, morbidi…la sostanza più morbida che mai sia esistita…ma non posso toccarli…se lo facessi, lo so, resterei disintegrata – resterebbe solo l’unghia – si dispiegano alti e flessuosi petali dorati i primi è come se nascessero l’uno dall’altro poi divaricano poi ne sono otto disposti intorno a un centro d’oro più chiaro su due degli otto petali leggo due lettere uno reca una K nera, l’altro una Y nera – eleganti sembrano disegnate con la china – la sensazione di bellezza è grandiosa, sono rapita, il cuore balza in gola quasi a posizionarsi ad altezza del centro del fiore però comincio ad avere paura è solo un lieve sentore il cielo si fa d’un azzurro più cupo a tratti lampi viola lo imbevono – diventa spaventoso so che sarà spaventoso ma la gamba comincia a fare male – provo a non darle retta resisti mi dico resisti ma poi sono sul divano a tenermi la gamba per il freddo a riparare un lembo scoperto.

[il prossimo passo si articola in tre movimenti: primo: i loro sguardi che si incontrano, combaciando come le superfici di due laghi montani in verticale; secondo: si raccontano i rispettivi sogni: lei quello dei petali su cui sono segnate le due lettere K[ali] Y[uga], lui il sogno di una porta in un posto preciso della città, ma da trovare; terzo movimento: lui che aiuta lei ad alzarsi dal letto, come paralitica le gambe non rispondono bene, poi, appoggiandosi a lui, cammina e si mettono in cammino]

Inverno visitò Ismaele, suo fratello visitato da inverno—–suo fratello visitò inverno. In sogno. Bambino sognato da ismaele-

[prosecuzione, storia di due ragazzi, o bambini, che cercano, lungo tutta una fila di peripezie, la porta per il passaggio ai paesi caldi]

[scena del passaggio della città deserta: ad un certo punto corrono…scappano: dietro chi sa quali mostri vedono, noi non vediamo niente, tutto è deserto]

[possibile scena finale: aperta la porta, entrano in una landa piatta bianca che si perde a perdita d’occhio, sembra ghiaccio…ma fa caldo. Stupore]

exclusione: Lei una tartaruga. Lui venera Tartaruga.

Si guardarono – laghi verticali i loro occhi aderiscono. Era la prima comunicazione necessaria – All’infuori del mondo ancora esistiamo. Altrimenti. Vuoto. No suono, no voce, nada. Nada. A dispetto del mondo esistiamo. Dove? Laghi verticali gli occhi uno di fronte l’altro, nel circolo corneo la risposta alla pratica dell’esistenza.

4 commenti

  1. Scrivo la pagina bianca perché si imbianchi di nuovo nella lettura · · Rispondi

    Questa scrittura. Il motivo per cui ho cominciato e uno stimolo per continuare. Complimenti, davvero bravo.

  2. marcaragno · · Rispondi

    Lettura interessantissima, Carlo. Ottimo pezzo. Ci ritornerò sicuramente su.

  3. LVDC (il cui vero nome è Aristarco) · · Rispondi

    Alcune parti sono da letteratura d’autore. Altre un po’ sconnesse (anche se, credo, volutamente) sarebbero da sistemare. Interessante, comunque.

  4. francescaprea · · Rispondi

    Più che ottimo lavoro! se non avesse la tua firma avrei dubitato fosse tuo. Molto diverso dai precedenti lavori, meno macchinoso e arrovellato. Essenziale, immediato, impeccabile. e il soggetto, beh, ha qualcosa di familiare…. grazie per avermi pensato.
    Bionda

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