IDEA DELL’INFANZIA

Walton Ford, The Sensorium, 2003, (Part)

Nelle acque dolci del Messico vive una specie di salamandra albina che ha da tempo attirato l’attenzione degli zoologi e degli studiosi di evoluzione animale. Chi ha avuto occasione di osservarne un esemplare in un acquario resta colpito dall’aspetto infantile, quasi fetale di quest’anfibio: la testa relativamente grande e incassata nel corpo, la pelle opalescente, appena marezzata di grigio sul muso e accesa di azzurro e di rosa sulle escrescenze febbrili intorno alle branchie, le esili zampe gigliate di rozze dita petaliformi.
___In un primo momento, l’axolotl fu classificato come una specie a sé, che presentava la particolarità di mantenere per tutta la vita caratteristiche, per un anfibio, tipicamente larvali, come la respirazione branchiale e la dimora esclusivamente acquatica. Che si trattasse di una specie autonoma era provato oltre ogni dubbio dal fatto che, malgrado il suo aspetto infantile, l’axolotl era perfettamente capace di riprodursi. Solo più tardi una serie di esperimenti accertò che, in seguito alla somministrazione di ormone tiroideo, il piccolo tritonide subiva la metamorfosi normale per gli anfibi, perdeva le branchie e, sviluppando la respirazione polmonare, abbandonava la vita acquatica per trasformarsi in un esemplare adulto di salamandra screziata (Amblistoma tygrinum). Questa circostanza può indurre a classificare l’axolotl come un caso di regressione evolutiva, come una sconfitta nella lotta per la vita che costringe un anfibio a rinunciare alla parte terrestre della sua esistenza e a protrarre indefinitamente il proprio stato larvale. Ma, di recente, proprio questo caparbio infantilismo (pedomorfosi o neotenia) ha offerto la chiave per comprendere in modo nuovo l’evoluzione umana.
___L’uomo non si sarebbe sviluppato per evoluzione a partire dagli individui adulti, ma dai cuccioli di un primate, che, come l’axolotl, avevano prematuramente acquisito la capacità di riprodursi. Ciò spiegherebbe quei caratteri morfologici dell’uomo, dalla posizione del foro occipitale alla forma del padiglione dell’orecchio, dalla pelle glabra alla struttura delle mani e dei piedi, che non corrispondono a quelli degli antropoidi adulti, ma a quelli dei loro feti. Caratteri, che nei primati sono transitori, nell’uomo sono divenuti definitivi, realizzando in qualche modo in carne e ossa il tipo dell’eterno fanciullo. Soprattutto, però, quest’ipotesi permette di avvicinarsi in modo nuovo al linguaggio e a tutta quella sfera della tradizione esosomatica che, più di ogni impronta genetica, caratterizza l’homo sapiens e che finora la scienza sembra costitutivamente incapace di comprendere.
___Proviamo a immaginare un infante che non si limiti semplicemente, come l’axolotl, a fissarsi nel proprio ambiente larvale e nelle proprie forme acerbe, ma che sia, per così dire, tanto abbandonato alla propria infanzia, tanto poco specializzato e così totipotente, da declinare qualsiasi destino specifico e qualunque ambiente determinato, per attenersi unicamente alla propria immaturità e alla propria sprovvedutezza. Gli animali disattendono le possibilità del loro soma che non sono iscritte nel germen: in fondo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, essi non badano affatto a ciò che è mortale (il soma è, in ciascun individuo, quel che, in ogni caso, è votato alla morte) e coltivano unicamente le possibilità infinitamente ripetibili che si sono fissate nel codice genetico. Essi fanno attenzione solo alla Legge, unicamente a ciò che è scritto.
___L’infante neotenico si troverebbe, invece, nella condizione di poter fare attenzione proprio a ciò che non è scritto, a possibilità somatiche arbitrarie e non codificate: nella sua infantile totipotenza, egli sarebbe estaticamente allibito e gettato fuori di sé non, come gli altri viventi, in una avventura e in un ambiente specifici, ma, per la prima volta, in un mondo: egli sarebbe veramente in ascolto dell’essere. E la sua voce essendo ancora libera da ogni prescrizione genetica, non avendo egli assolutamente nulla da dire e da esprimere, egli potrebbe, unico animale, nella sua lingua nominare, come Adamo, le cose. Nel nome l’uomo si lega all’infanzia, si ancora per sempre a un’apertura che trascende ogni destino specifico e ogni vocazione genetica.
___Ma questa apertura, questa tramortita stazione nell’essere, non è un evento che, in qualche modo, lo riguardi, non è, anzi, nemmeno un evento, qualcosa che possa essere registrato endosomaticamente e acquisito in una memoria genetica, ma, piuttosto, qualcosa che deve restare assolutamente esteriore, che non lo riguarda affatto e che, come tale, può essere soltanto affidato all’oblio, cioè a una memoria esosomatica e a una tradizione. Si tratta, per lui, di ricordarsi propriamente di nulla, di nulla che gli sia capitato o che si sia manifestato, ma che, pure, come nulla, anticipa ogni presenza e ogni memoria. Per questo, prima di tramandarsi qualsiasi sapere e qualunque tradizione, l’uomo ha necessariamente da tramandarsi la stessa svagatezza, la stessa indeterminata illatenza, nella quale soltanto qualcosa come una concreta tradizione storica è divenuta possibile. Il che si può anche esprimere con la costatazione, apparentemente triviale, che l’uomo, prima di trasmettersi qualcosa, deve innanzitutto trasmettersi il linguaggio. (Per questo un adulto non può imparare a parlare: sono stati dei bambini e non degli adulti ad accedere per la prima volta al linguaggio, e, malgrado i quaranta millenni della specie homo sapiens, proprio il più umano dei suoi caratteri – l’apprendimento del linguaggio – è rimasto tenacemente legato a una condizione infantile e a un’esteriorità: chi crede a un destino specifico non può veramente parlare.)
___La cultura e la spiritualità genuine sono quelle che non dimenticano quest’originaria vocazione infantile del linguaggio umano, mentre è proprio di una cultura degradata il tentativo di imitare il germen naturale per trasmettere valori immortali e codificati, in cui l’illatenza neotenica torna a chiudersi in una tradizione specifica. Se qualcosa distingue, infatti, la tradizione umana dal germen, è proprio il fatto che essa vuole salvare non soltanto il salvabile (i caratteri essenziali della specie), ma ciò che in ogni caso non può essere salvato, che è, anzi, già sempre perduto, che, meglio, non è stato mai posseduto come una proprietà specifica, ma che è, appunto per questo, indimenticabile: l’essere, l’illatenza del soma infantile, cui soltanto il mondo, soltanto il linguaggio è adeguato. Ciò che l’idea e l’essenza vogliono salvare è il fenomeno, l’irripetibile che è stato, e l’intenzione più propria del logos è non la conservazione della specie, ma la resurrezione della carne.
___Da qualche parte, dentro di noi, lo sbadato fanciullo neotenico continua il suo gioco regale. Ed è il suo giocare che ci dà tempo, che mantiene aperta per noi quell’intramontabile illatenza che i popoli e le lingue della terra, ciascuno a suo modo, vegliano a conservare e a differire – e a conservare solo nella misura in cui la differiscono. Le diverse nazioni e le molteplici lingue storiche sono le false vocazioni con cui l’uomo cerca di rispondere alla sua insopportabile assenza di voce, o, se si vuole, i tentativi, andati fatalmente a vuoto, di rendere afferrabile l’inafferrabile, di diventare – lui, l’eterno bambino – adulto. Solo il giorno in cui l’originaria illatenza infantile fosse veramente, vertiginosamente assunta come tale, il tempo raggiunto e il fanciullo Aion svegliato dal suo gioco e al suo gioco, allora gli uomini potrebbero finalmente costruire una storia e una lingua universali e non più differibili, e arrestare la propria erranza nelle tradizioni. Questa autentica revocazione dell’umanità al soma infantile si chiama: il pensiero – cioè la politica.

da Giorgio Agamben, Idea della Prosa, Quodlibet, 2002

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